Neuroshopping, è il titolo dell’interessante libro scritto dal Prof. Giampiero Lugli (Preside della facoltà di Economia dell’Università di Parma).

L’autore, specializzato nell’attività di ricerca sui temi del marketing distributivo e trade marketing, ci spiega come le recenti scoperte nel settore delle neuroscienze sono in grado di offrire una nuova prospettiva di analisi nel comportamento di acquisto. Il  testo suggerisce metodi di valutazione  interessanti per comprendere quanto l’emozionalità influisca nelle decisioni di acquisto. Ma invita anche i produttori ad una riflessione finalizzata al ri-orientamento degli strumenti di marketing e alla ricerca di nuove metodologie di fidelizzazione.

La neuroscienza ci spiega anche perché la scritta allarmate “il fumo uccide” riprodotta sui pacchetti di sigarette non influisce sui volumi di vendita: semplicemente perché si rivelano più efficaci gli abbinamenti del logo dei produttori con i campioni di formula uno o le bucoliche immagini dell’Ovest degli Stati Uniti, che realizzano un’inconscia e positiva identificazione con il brand. Accademia e ricerca confermano conoscenze, comunque, oramai note e sperimentate e che assegnano agli aspetti emozionali una valenza preponderante sulle decisioni di acquisto per la maggioranza dei beni di consumo. Ciononostante, anche la recente rivoluzione nelle scelte di acquisto dei consumatori in crisi, ripropone l’inadeguadezza delle strategie di marketing di molti produttori di beni semidurevoli che non riescono a svincolarsi dalle superate strategie product oriented. Perché né le innovative politiche di web, né la ricerca spasmodica della qualità o della differenziazione estetica, riescono da sole a influire e pilotare sull’emozionalità dei consumatori. E’ dimostrato che su questa fa leva invece la personalità, l’identità, il valore, lo charme, la reputazione e l’etica del brand (nelle varie sfaccettature a seconda della merceologia), che viene percepita dal consumatore.

Questione di mesi. Prima gli investimenti in marketing e in Pr potevano definire e posizionare un brand: oggi, invece, sono gli utenti che definiscono senza appello che cosa in realtà un marchio o un prodotto rappresentano per loro. Si è capovolto il sistema della relazione tra azienda e cliente finale, ancora una volta complice il web i suoi nuovi, prepotenti e invasivi strumenti d’utilizzo. Chi si occupa in azienda di questi clienti 2.0? Di stanno affermando gli hero che sta per highly enpowered and resourcefull operative, collaborativi ad alto tasso di creatività che sanno utilizzare disinvoltamente le tecnologie on line per comunicare e interagire con i clienti. In effetti il nuovo utente/cliente finale ha cambiato approccio con il mercato e pretende oggi dall’azienda un rapporto diretto, veloce e trasparente. Esigenze che trovano impreparate le strutture tradizionali destinati alle relazioni esterne. Ma impreparato è anche il management, chiamato oggi a riconoscere nel proprio staff la presenza di “hero”  e nel contempo controbattere al caos provocato da dipendenti che autonomamente, senza autorizzazione, intervengono su blog e social network. In pratica bisogna costruire un piano strategico che coinvolga tutti, e che si basi sulla ricerca: prima di colloquiare con i clienti bisogna aver monitorato il mercato, i concorrenti, i clienti e le persone che si vorrebbero come clienti.

LA DIFFIDENZA DEGLI IMPRENDITORI LI PORTA AD ATTEGGIAMENTI AUTARCHICI E A RIFUGGIRE DALLE ESPERIENZE ESTERNE.

Siamo entrati nel periodo dei bilanci: sarà facile e doloroso per le aziende fare il bilancio consuntivo del 2010 ma sarà invece difficile fare il bilancio di previsione. Perché? I contabili, gli amministratori, i centri studi sono forse usciti di senno? No, più semplicemente non è prevedibile dimensionare il comportamento dei consumatori e conseguentemente fare delle stime delle entrate che abbiano coerenza contabile. Ma cosa succede al consumatore? Ha semplicemente modificato radicalmente la sua scala di valori riferita ai beni di consumo: si è liberato dal comportamento omologato della famiglia, del gruppo sociale, dei gruppi di appartenenza ed è andato per la sua strada. Ognuno con le proprie paure, ognuno con la voglia di farla pagare a qualcuno e con l’obiettivo di pagare di meno quello che aveva desiderato fino a ieri. I prodotti low cost sono una prima risposta per intercettare, questo tipo di atteggiamento dei consumatori, che di fatto si è rivelato individualista e solitario, e quindi inclassificabile nelle statistiche merceologiche e se gli statistici sono rimasti senza numeri e percentuali, molti imprenditori sono rimasti senza bussola. Soprattutto nel mondo delle imprese la reazione è stata quella di disperarsi dietro le quinte, di tener duro, ma di affrontare solitariamente le cose. E’ prevalsa l’idea di non dover dire “in giro” la propria realtà, perfettamente in linea con una stereotipata concezione di impresa padronale. Qualche carta è stata scoperta solo sulle scrivanie dei funzionari degli istituti di credito peraltro ingessati dalle regole di  Basilea, resi indifferenti dalla burocratizzazione e dal declino della responsabilità d’agenzia, impauriti da una debacle di solvibilità che riguarda imprese, famiglie e single.

Ne è uscita rafforzata la diffidenza, a 360 gradi: figurarsi verso gli esperti esterni, i cosiddetti consulenti. Quando era il momento per aprirsi, per confrontare la propria storia e la propria esperienza con qualcuno che avesse vissuto professionalmente più storie e più esperienze, questa apertura è venuta meno. Le imprese in questa situazione di incertezza avrebbero dovuto ricorrere massicciamente ai consulenti di direzione, cosa che forse è avvenuta nelle grandi aziende ma sicuramente molto limitatamente nelle piccole  e medie. Ciò non è avvenuto e sta incrementando le situazioni di difficoltà registrate dalle imprese.

Maria Gabriella Ferrazza

I problemi nascono dal mercato e spesso sono indifferenti alla realtà dei prodotti di una azienda. Da qui la necessità di impostare strategie di marketing scientifiche e non sensitive.

Nel complesso mondo del marketing c’è una componente che oramai ha una notorietà molto diffusa: è la cosiddetta regola delle 4P ( prodotto “product; prezzo “price”; distribuzione “placement”; comunicazione “promotion”). Questa regola è in effetti l’essenza del marketing mix, la base sulla quale si può sviluppare l’attività commerciale di ogni azienda, a prescindere dalla dimensione. Ma benché questa regola sia molto conosciuta, di fatto sembra non abbia scalfito l’atteggiamento dell’imprenditore italiano. Per la maggioranza delle piccole e medie imprese “fare marketing” sembra voglia dire occuparsi soltanto di alcuni aspetti del marketing mix e ad occuparsene, spesso, è il titolare o l’amministratore. Con il risultato che quest’ultimo guarda l’azienda partendo dall’alto con l’obiettivo di avere un controllo totale della situazione e perdendo conseguentemente di vista i vari tasselli che compongono la ricerca di marketing. Alla fine, raccogliere un ordine viene recepito come una funzione di marketing, mentre fare marketing significa entrare in possesso del cliente finale. Cosa significa? La risposta la da  Kotler (Philip Kotler, guru del marketing e propugnatore della teoria delle 4P): “ il marketing è nato quasi un secolo fa per aiutare la vendita attraverso ricerche di mercato, comunicazione, attraverso quella che oggi si chiama profilazione del target: questo è ciò di cui la vendita ha bisogno. Per la piccola impresa non c’è altra soluzione che acquistare una consulenza di marketing, perché il marketing ha una funzione troppo vasta per non richiedere il lavoro di più persone.” Traduzione: l’atteggiamento delle imprese italiane di arroccarsi nell’analisi delle problematiche interne all’azienda, trascurando lo studio di quello che avviene all’esterno, porta ad un avvitamento autoreferenziale e autoconsolatorio. Ma non bisogna consolarsi, bisogna combattere: la battaglia la si vince se si conosce il terreno esterno e lo spiegamento delle forze concorrenti. Ma non basta: Napoleone prima della battaglia saliva sulle colline per valutare dall’alto la situazione. E’ quello che devono fare gli imprenditori oggi: uscire dalle aziende attraverso la visione di esperti esterni che possono apportare alle sue conoscenze il plus di studi, analisi e interpretazioni in grado di dare l’input a strategie innovative e favorire comportamenti scientifici e non sensitivi. Conclusione: il marketing è scienza, va coordinato dal numero uno dell’azienda ma gestito rinunciando al “fai da te” e avvalendosi di esperti esterni. Solo così si può fare una vera strategia di marketing, coerentemente impostata e guidata nel tempo.

iSaloniMoscow09Il vento dell’est soffia sul Made in Italy a Mosca e lancia segnali di ripresa. Al Crocus Expo si sono svolti dal 7 al 10 ottobre i Saloni WorldWide, organizzati dal Cosmit di Milano e al quale hanno partecipato 360 aziende italiane. I visitatori sono stati 29098 provenienti dalla Russia e dalle ex Repubbliche sovietiche, quindi un numero modestissimo e sicuramente deludente per i marchi presenti, abituati a ben altre cifre con il Salone del Mobile di Milano. Ma non è sicuramente un dato imprevedibile, vista la situazione economica internazionale e soprattutto la fortissima crisi che ha investito Mosca e dintorni. Ma i numeri sono una cosa… i contatti ed i contratti sono quello che contano: da questo punto di vista, secondo gli organizzatori, gli espositori dovrebbero essere ritornati in Italia soddisfatti. La presenza a Mosca di 360 aziende italiane ha dato, però, la possibilità di cogliere un nuovo indicatore importante: il design italiano, fino a pochi anni fa retaggio esclusivo di una limitata elite, oggi in Russia incontra l’apprezzamento di una fascia crescente di consumatori. Probabilmente il Presidente Russo Dimitri Medvedev dirà che è merito suo e della sua politica economica che ha favorito lo sviluppo delle piccole e medie imprese: e sarà anche così, ma ragione ha origini più lontane. Il Made in Italy diventa più popolare, piace e commercialmente interessa una fascia più vasta dei consumatori russi, perché in quel Paese ci sarà ancora tanta miseria ma c’è sicuramente un retaggio culturale diffuso di alto profilo. Non vanno dimenticate le avanguardie russe, le esperienze di costruttivisti e suprematisti che con la Bahuashouse avevano creato un ponte tra la ricerca artistica e il design, l’architettura, la costruzione dei mobili. C’è quindi una cultura estetica antica (anche se per decenni assopita e frustrata dal realismo socialista) pronta ad apprezzare la modernità e la valenza del design italiano. Ma forse c’è anche un’altra indicazione da trarre dal Salone WorlWide di Mosca: se il design interessa anche le fasce più ampie della non eccellenza reddituale sovietica, allora deve diventare più “democratico” sul piano dei costi. Nuove imposte protettrici recentemente introdotte dalla Russia contraddicono questa necessità: però, di fatto, non soltanto in Russia, ma anche nella vecchia Europa il settore dell’arredamento deve cominciare a pensare a politiche di calmierazione dei prezzi lavorando su processi produttivi, produttività e sistema distributivo.